Le donne nella resistenza
La seconda guerra mondiale come la prima, ha coinvolto ancora di più le donne, che subiscono in prima persona le distruzioni dovute ai bombardamenti, la carenza di cibo, la morte dei propri cari e le persecuzioni razziste, fino alla ferocia nazista che porterà all’Olocausto.


Le donne italiane, fin dall'8 settembre, sono sempre state vicine con cura solidale ai soldati sbandati, ai prigionieri fuggiti, e poi via via agli ebrei, ai renitenti alla leva, ai ricercati, ai bambini. Nel loro essere sorelle, figlie, madri e mogli c’era anche una volontà di forte protagonismo e di cittadinanza, da vivere analogamente a quella maschile, che esaltasse fortemente la propria autodeterminazione.
Tutto ciò sarà determinante e avrà la sua influenza con effetti sul carattere delle donne coinvolte in questo processo civile: coraggio fisico e resistenza psicologica, capacità di prendere rapidamente decisioni drammatiche da sole, di controllo e di operatività , in campi nuovi per il mondo femminile, saranno un vero banco di prova dove si sono cimentate con prontezza e generosità.
Capacità e operatività che continueranno in essere presenti nelle donne anche dopo la fine della guerra: nelle reti di assistenza ai reduci, agli sfollati, ai bambini: caratterizzando così un attivismo politico delle donne fino all’espandersi delle grandi associazioni popolari femminili come, l'UDI e il CIF.
Capacità e operatività che continueranno in essere presenti nelle donne anche dopo la fine della guerra: nelle reti di assistenza ai reduci, agli sfollati, ai bambini: caratterizzando così un attivismo politico delle donne fino all’espandersi delle grandi associazioni popolari femminili come, l'UDI e il CIF.


Furono soprattutto le donne a dare un rifugio alle persone che fuggivano dai rastrellamenti e che per mettersi completamente in salvo non avevano a disposizione ingenti somme di denaro e di relazioni forti che garantissero loro l'incolumità; questo è stato sicuramente uno degli esempi di resistenza civile messa in atto dalle donne.


Poiché si credeva che destassero meno sospetti e fossero meno soggette alle perquisizioni, venivano impiegate ragazze di 16, 17 o 18 anni che garantivano i collegamenti tra le varie collocazioni partigiane; a differenza della “donna partigiana” che aveva il più delle volte un'arma con la quale difendersi, quello della “staffetta” , come si può immaginare, era un ruolo molto più pericoloso, era incombente il rischio di venire catturata, con il rischio di essere torturate, con la responsabilità di non dare nessuna informazione.
Viene spontaneo quindi chiedersi per quale motivo non si è saputo niente di queste donne e del loro ruolo nella resistenza, delle loro storie e delle loro immense sofferenze?
Nell’immediato dopo guerra le istituzioni hanno riconosciuto come “partigiani combattenti” solamente chi ha militato per almeno 6 mesi in una banda riconosciuta e ha preso parte ad almeno 3 scontri armati. In quella fase quindi le donne non sono state riconosciute come partigiane perché non avevano tutti questi "requisiti", mentre altre vengono riconosciute solo come partigiane non combattenti.
Così con un processo di cancellazione istituzionale, come tutte le altre persone che hanno contribuito alla resistenza e che non sono state riconosciute come partigiani sono finite nel dimenticatoio.
Questo è il senso che si vuole dare ad una ricorrenza così importante per la nostra società, come la festa della donna, riportando alla memoria nomi e cognomi, racconti di tutte le donne che hanno, con il loro sacrificio e a volte anche con la vita, reso possibile il nostro vivere quotidiano.
Questo è il senso che si vuole dare ad una ricorrenza così importante per la nostra società, come la festa della donna, riportando alla memoria nomi e cognomi, racconti di tutte le donne che hanno, con il loro sacrificio e a volte anche con la vita, reso possibile il nostro vivere quotidiano.
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sulle donne nella resistenza tratto dal sito dellìANPI nazionale
ricerca e redazione della documentazione a cura di Vittorio Minichini
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