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ORA E SEMPRE RESISTENZA

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mercoledì 21 luglio 2010

LA BEFFA DEL TEATRO GOLDONI

  Si tratta di un brano fra tanti raccolti in una serie di testimonianze  sulla lotta di liberazione nel centro storico, in laguna e in terraferma:  dal titolo "1943-1945 VENEZIA NELLA RESISTENZA  - TESTIMONIANZE - 
Si tratta di ricordi di quelli che furono i protagonisti, molti di loro oggi non ci sono più, ma che nel 1975/76 erano ancora presenti e alcuni diventati protagonisti della vita sociale e politica veneziana e italiana.
Una rassegna dettagfliata di tutti gli aspetti della  nostra Resistenza, fondata sui ricordi di coloro che vi hanno partecipato o su documenti fino a quel momento poco utilizzati o addiritura recuperati in quell'occasione: una serie di testimonianze che ricostruiscono il travaglio politico che è stato alla base di quelle vicende politiche.
Un libro che testimonia l'importanza del contributo dato da venezia alla Resistenza; un'importanza che non è stata sinora posta in luce adeguatamente, sia per venezia, sia per tutta la regione veneta che, nella storiografia più generale, hanno spesso parti soltanto marginali.
Nei venti mesi che vanno dal settembre 1943 alla Liberazione, Venezia è stata a lungo sede del C.L.N.  e del Comando Militare Regionale, particolarmente nel periodo in cui si preparava e poi si è svolta l'insurrezione: Venezia era il centro del compartiento ferroviario della regione e quindi di tutta l'azione che ha contrastato e sabotato l'occupazione tedesca, il centro dell'attività dell BRIGATE FERROVIARIE MATTEOTTI ilcui comitato esecutivo regionale è divenuto ad un certo punto, a riconoscimento dell'importanza e del valore della sua attività, "Giunta Militare Alta Italia"; il centro delle principali missioni informative organizzate d'accordo con gli alleati e la resistenza.
venezia diede moltissimi suoi cittadini alle formazioni partigiane della montagna e  nonostante ciò trovò modo di costituire formazioni partigiane vitalissime locali.
In particolare con il racconto che si vuole pubblicare si vuole rendere omaggio alla spregiudicatezza e alla determinatezza della Brigata Garibaldi "F. Biancotto" che il 12 Marzo 1945 riuscì in un impresa impossibile, prendendosi "beffa" delle B rigate nere e del Comando Tedesco a Venezia.


12 MARZO 1945

   L'inverno 1944-45 era stato duro per le forze della Resistenza: in seguito ai molti arresti perpetrati dai
nazifascisti in Venezia lo stato d'animo della popolazione e degli stessi ambienti clandestini di opposizione
era fortemente depresso.
   Nel dicembre 1944 erano finiti a S. Maria Maggiore molti miei compagni; fra questi: Gian Mario Vianello,
Jone e Iride Calò, i Preveato, padre e figlio, il capo Gap Guglielmo Forcolin, Ettore Angelin, Angelo e
Alessandro Zanoni, Giuseppe Marchesini.
    Sempre nel dicembre le Brigate Nere durante un rastrellamento compiuto a Murano scoprirono e
catturarono alcuni ex prigionieri di guerra, francesi e di altre nazionalità, che dopo 1'8 settembre 1943
avevano colà trovato rifugio e assistenza presso nostri amici. Pure in quei giorni Romano Zafalon era stato
individuato col suo vero nome e costretto a darsi alla macchia. Alla macchia viveva, da tempo, anche
Giuseppe Reato.
   Nel gennaio 1945 subimmo altri rovesci: furono arrestati Armando Pizzinato, Giuliano e Giuseppe
Lucchetta, Ada Besutti-Mazzotti. Altri compagni ancora finirono in carcere: Panizzutti, Rugotti, Enzo,
Marchiò, Zennaro, Bon, Ballarin, Moro .
    Il 24 gennaio Piero Franceschi riuscì a sfuggire alla cattura, ferendosi nella fuga che lo portò a salvezza. in
una casa amica.
    E' dalla valutazione che si dovesse necessariamente rialzare il morale dal nostro popolo, prepararne l'animo
alle esigenze insurrezionali, così come prospettate dal C.L.N., che trae origine l'azione di sfida aperta che un
pugno di partigiani della Brigata Garibaldi «F. Biancotto» compì la sera del 12 marzo 1945 al teatro Goldoni.
    Da tempo stavo inquadrando in un'unica formazione nuclei di patrioti, temprati dalle precedenti prove di
guerre sofferte e di lotta clandestina. Potevo giovarmi, quali diretti collaboratori, di elementi G.A.P., i temuti
gruppi di azione partigiana. Disponevo pure di uomini provenienti dalle formazioni di montagna e di pianura,
di molti giovani appartenenti al Fronte della Gioventù, in generale tutti abili nell'uso delle armi, ricchi, alcuni,
di una non comune esperienza di guerriglia.
   La maggiore difficoltà del mio compito, una volta riuscito ad inquadrare la formazione, consisteva
nell'innestare nei singoli elementi una coscienza e una disciplina militare collettiva. I più vivi mantenevano le
caratteristiche di punta dei G.A.P., mentre noi eravamo cresciuti durante quei due anni, in qualità e in numero,
sì da poter contare su una vera e propria brigata. Fra di noi i rapporti, pur nella necessaria gerarchia, si
potevano compendiare in questi termini: disciplina, lealtà, amicizia.
    Proposi un piano d'azione (comizio partigiano in un pubblico ritrovo) che servisse al duplice scopo di
rialzare il morale sia della popolazione che delle organizzazioni collegate al C.L.N., e mortificare la iattanza
dei nazifascisti, preparando così le premesse favorevoli per la non lontana insurrezione.

    nella foto Kim, Marco e Cesco, nel marzo 1945




***


   Eravamo consci di aver da tempo acquisita qualche apprezzabile esperienza di guerra o, se si vuole, di
guerriglia. Non pochi di noi avevano dovuto sopportare pressochè tutte le bellicosità del periodo 1935-1943:
esperienze quindi sulla pelle ... A queste si erano aggiunte dopo 1'8 settembre quelle (volontarie) dell'azione
clandestina di città, della guerriglia nella bassa Padovana, le esperienze nel Cansiglio e nei boschi del
Bellunese.
   Nel valutare i risultati ottenuti, positivi e negativi, avevamo concluso che fatti i conti, nulla o poco, era
stato da noi concesso all'improvvisazione o a quel genere di temerarietà che è vicino alla sconsideratezza.
   Noi del Gruppo Comando possiamo dire, in coscienza, di aver tenuto sempre presente il concetto di
responsabilità diretta e in diretta, di aver seguito e scrutato l'ordine illogico-e logico degli avvenimenti di
guerra, così come andavano manifestandosi, nella mutevole realtà di ogni giorno. Eravamo consapevoli di
essere uomini, cioè esseri fallaci.
   Dunque: operazione militare offensiva; scelta dell'obiettivo; obiettivo non disgiunto dal risvolto politico.
   Rilevazione' del «terreno»: termine questo che ricordava a più di uno di noi i temi tattici della scuola di
guerra.
   Preparazione psicologica degli uomini; valutazione dei mezzi a disposizione; adeguamento al grado di
efficienza del nemico e degli elementi contrari. Nessun ottimismo.
   Conclusioni e ripensamenti: la necessaria parte del diavolo. Il nostro divisamento, di massima, era questo:
una operazione di guerra, una volta iniziata, si deve portare a conclusione. Questa mia volontà era, di fatto,
condivisa da tutto il Gruppo Comando.
   Ciò non escludeva affatto il concetto di prudenza, per cui sempre avevamo badato a far sì che una, almeno
una, via di 'uscita ci fosse assicurata al momento della conclusione di ogni nostra operazione.
   Il Teatro Goldoni faceva al caso nostro, in quanto la sua topografia presentava prospettive favorevoli. In
ciò che progettai non c'era, tutto sommato, niente di chimerico e tantomeno le componenti pur suggestive e
tentatrici di proporre un qualcosa che si esaurisse soltanto in un episodio di valore spettacolare o
propagandistico. Volli colpire a freddo.
A  freddo, appunto, perché i fascisti erano ancora esultanti per aver conseguito, a nostro danno, dei successi che li avevano insuperbiti. L'obiettivo era lì: sembrava aspettarci. Dovevamo aspettare per qualche settimana;
aspettare che si godessero il loro festino (quanti dei nostri erano stati arrestati!) ed intanto preparare quel
piatto freddo che è suggerito, in' termini di storia, dal più sagace decifratore degli impulsi che «muovono li
huomeni».   

    Uno schiaffo? Forse qualcosa di più. Una sfida aperta. Una beffa: di fronte a tutti ...
La posizione da attaccare poteva sembrare sguarnita, ma in realtà era, di fatto, una di quelle da loro
governate, frequentate, appartenenti al loro prestigio.
   Non avevamo grande disponibilità di uomini e di scelta; dovevamo tener conto, infatti, che molti nostri
partigiani erano in carcere.
   In guerra, così come in politica, è difficile individuare il momento' in cui il gioco si risolve, o si può
risolvere, 'a nostro favore.
.
***

   Procedetti ad un rigoroso esame degli elementi che' giudicavo idonei in rapporto al rischio e all'importanza
dell'azione progettata: mobilitai separatamente un gruppo di compagni di cui conoscevo l'assoluta dedizione
alla Causa.
   Occorreva prima di tutto contemperare lo slancio audace dei più giovani con la calma determinazione dei
più esperti.
   Il Gruppo Comando decise di affidare l'azione al Fronte della gioventù, il movimento fondato da Curiel,
anche per ricordare Francesco Biancotto, massacrato sulle macerie di Cà Giustinian, già compagno di cella a S. Maria Maggiore del nostro Chinello.
   Mentre i compagni pensavano ad orientarsi fra i corridoi, la portineria, i meandri del Teatro Goldoni, sulle
abitudini dei preposti ai servizi, mi misi all'opera con due precisi intenti: armi (ma di quelle buone) ed uomini.
Armi e non catenacci e alcuni uomini di più matura esperienza a rinforzo della compagine.
   Cercai dappertutto, feci più strade che l'ebreo errante: l'incertezza e lo sgomento parevano regnassero
ovunque nella città. Molte porte erano chiuse. Non soltanto noi ma anche gli altri amici della Resistenza si
trovavano in difficoltà. Alcuni poi temevano colpi di testa ed io dovevo andar cauto, poco desideroso del resto di rivelare a chicchessia i nostri progetti.
   Le armi vennero: prima due Berretta e alcune bombe a mano; poi Busulini procurò pistole varie e il
relativo munizionamento; Borella e Bruno Vianello (fratello di Gian Mario) a loro volta reperirono delle
vecchie Mauser ed altro materiale.
    Si ripresero i disarmi, ma con poco successo e i tempi stringevano. Si resero utili in quei giorni Lina
Basaldella e Dina Velluti: ripescarono, sotto i piedestalli delle statue -i modelli in gesso -dell'Accademia
delle Belle Arti, pistole e cartocci di munizioni nascosti da tempo da Dino (Ermes) e da Stefano.
    La mia vecchia burocratica borsa portò in quei giorni un piccolo arsenale. Tutto andava a finire, di mano in
mano, nella bottega del fabbro Giacomo Tenderini, per il collaudo definitivo; qualche volta i ragazzi erano
disgustati dagli arnesi antiquati che provenivano da più parti. Protestavano. con me invocando «almeno un
mitra!».
    Ero preoccupato perché non riuscivo a trovare qualche elemento nuovo, più sperimentato: per i problemi
organizzativi generali, riguardanti la città, avevo come collaboratore Ferruccio Citton. Mi aveva in passato
parlato di suo nipote Giovanni che aveva combattuto in montagna, e che da qualche tempo, superata una
malattia, erà a disposizione.
    Gli chiesi di farmelo conoscere: presi contatto e dopo poche parole -Giovanni Citton (Moro) è uomo
taciturno. -ci mettemmo d'accordo: «Se non hai niente in contrario, faccio venire con me un altro mio
compagno: è in gamba», mi disse, e la sera dopo mi portò Totò.
    Non si creda che dietro questo scherzoso nomignolo si celasse qualche zerbinotto, perché mi trovai di
fronte ad un giovane di vivaci e marcati lineamenti, forte come un Ercole, che dopo avermi ben stretto la
mano e ancor meglio sbirciato in faccia,. mi disse «che gli andavo a genio» e che «qualsiasi cosa succedesse;
sarebbe venuto con noi.
                                           nella foto: in ginocchio da sinistra Gastone, Totò, Gin, Ottone Padoan (Michele), Moro, leo,   
                                            In piedi: Borel, Oc, Cesco, Kim, Marco

   Fu così che Otello Morosini (Totò) entrò nelle nostre file e partecipò con quella sua natura felice e burlesca
alle imprese della «Biancotto»,
    Quando poi ci incontrammo con Gastone Pedrali, anche lui alto, robusto, dotato di un suo ironico
mordente, mi misero in mezzo a loro e dopo che ebbi parlato di quanto si progettava, fra' un sorrisetto e l'altro mi dissero: «In mezo a noialtri, ti xè al sicuro».

***

Vari avvenimenti ostacolarono, ritardarono e modificarono la attuazione del piano. La sera del 5 marzo,
comunque, il lavoro era giunto a buon punto: convocai alcuni responsabili ed affidai ad ognuno un preciso
incarico di ulteriore ricerca e controllo.
   La nostra arrneria era ancora sguarnita: riuscii a procurare tredici pistole Beretta cal. 9, e sei bombe a mano
Breda.
   Il piano definitivo, così come lo illustrai ai miei Garibaldini, in termini di probabilità, si presentava come
segue: un patriota . armato doveva sorvegliare l'accesso alla portineria del teatro, tre di noi armati fra il
pubblico pronti ad intervenire nel caso di reazione da parte dei nazifascisti presenti; gli altri nove con azione
di forza entrando dalla portineria avrebbero rastrellato corridoi e palcoscenico, non dimenticando la buca del
suggeritore e i servizi tecnici, luoghi dei quali avevamo diretta. conoscenza.
   Una volta ripulito l'accesso avrebbero simultaneamente bloccato le due porte che comunicavano colla
platea e sorvegliato la cabina telefonica, Cesco Chinello avrebbe tenuto comizio .
   Si trattava in sostanza di disarmare i poliziotti di servizio e mettere «faccia al muro» e «mani in alto» non
meno di venti persone.
    Avevo provveduto affinché una barca con rematore fosse attraccata sulla riva del Carbon, il più vicino
possibile alla porta del teatro.
    Il prof. Vecchi era come sempre a nostra disposizione. Potei altresì avvalermi della collaborazione di Luigi
Busulini il quale, in caso di incidenti, avrebbe interrotto l’erogazione del'energia elettrica, manovrando
direttamente dalla cabina situata a poca distanza dal teatro, oscurando così tutta la zona.


    Le compagne Maria Teresa Dorigo e Gina De Anna
 avrebbero mantenuto il collegamento con Busulini che
stazionava di fuori. Si doveva agire la sera dell'Il Marzo.


    Successe un incidente: tutto era a posto quando vennero ad avvertirmi che Giacomo Tenderini era rimasto
ferito mentre uno dei ragazzi caricava le armi. La ferita non si rivelò, poi, grave ma le conseguenze
psicologiche potevano essere pericolose.
   Intervenni subito: per primo provvidi affinché Giacomo, accompagnato da Lina, fosse condotto in privato
dal nostro prof. Vecchi. Per secondo riunii i compagni: li rincuorai, assicurandoli sulla salute di Giacomo, ma
cogliendo in alcuni un po' di turbamento non risparmiai le parole severe e quelle atte a stimolare la loro
fierezza.
   Si giunse al momento buono, ma un allarme aereo sopraggiunto ci obbligò a rinviare tutto per la sera
successiva.
   Coadiuvare dai miei collaboratori, riuscii a tenere sotto pressione i Garibaldini per tutta la giornata
garantendomi, con appropriate misure, che fosse mantenuto il necessario segreto. Nessuno all'infuori di noi (e
pochi altri) sapeva nulla. Nessuno.
    Tre elementi essenziali concorrevano a giustificare il mio piano: la perfetta conoscenza del posto,
l'esperimentata decisione dei Garibaldini, l'elemento sorpresa. E, inoltre, la rapidità dell'azione, la verosimile
paura e sbalordimento dei nazifascisti presenti avrebbero compiuto il resto.
   C'era pure un ultimo e non trascurabile elemento psicologico: da più sere la compagnia Zareschi-Crisman
replicava la commedia «Vestire gli ignudi» di Pirandello: avendo visto sempre il pubblico rimanere sorpreso
di fronte ai mutamenti di scena creati dalla fantasia del nostro commediografo ne ho tratto le conseguenze del
caso.
   Come clandestini, partivano, devo ammetterlo, da una posizione di vantaggio. Quei signori potevano
ritenere di averci presso che sgominati, ed era abbastanza vero, ma difficilmente avrebbero potuto ipotizzare
che ci saremmo risollevati dagli scacchi subiti con una azione di quella sorta al limite dell'irrisione,
configurata, inserita, in un meccanismo teatrale, sulla presenza in scena di personaggi -attori che attori non
erano -in una insolita finzione-che avrebbe anche potuto essere suggerita, forse, da l'altro io -Pirandello.
    L'aspetto politico mi era chiaro: avremmo, se tutto andava bene, resi sgomenti quegli uomini, intaccato il
prestigio dei loro capi, scossa la fiducia dei creduli nella vittoria di Hitler, ma soprattutto avremmo fatto presa
nell'animo del popolo veneziano che nella sua emotività avrebbe ingigantito l'avvenimento.
    Giungemmo al momento cruciale. Le disposizioni che avevo dato erano che bisognava evitare che
I'impresa, attraverso atti irresponsabili dei nazifascisti, potesse degenerare con conseguenze che ci sarebbero
state ritorte dalla propaganda nemica.


Appena entrati in azione vennero messi in condizione di non nuocerei poliziotti e il personale di servizio; a
loro volta gli attori e gli inservienti non si fecero ripetere due volte l'invito.


    Alle ore 21.16 Arcalli, Padoan, Chinello, mascherati e armi in pugno, entrarono sulla ribalta e tennero
comizio. «Nessuno si muova! Se in teatro c'è spia e traditore fascista venga fuori che riceverà piombo
partigiano» fu gridato dall'interno dalla voce di Citton. Chi nello si mise al centro della ribalta (erano state
intanto accese le luci) e rivolse al pubblico la parola di incitamento: «Veneziani, l'ultimo quarto d'ora per
Hitler e i traditori fascisti sta per scoccare.
    Lottate con noi per la causa della Liberazione nazionale e per lo schiacciamento definitivo del
nazifascismo.-la Liberazione è vicina! stringetevi intorno al Comitato di Liberazione Nazionale e alle
bandiere degli eroici partigiani che combattono per la libertà d'Italia dal giogo nazifascista.
    Noi lottiamo per poter garantire, attraverso la democrazia progressiva e l'unità di tutti i partiti antifascisti,
l'avvenire e la ricostruzione della nostra Patria. A morte il fascismo! Libertà ai popoli! Viva il Fronte della
Gioventù! », Poi Chinello, fatto si sorridente, concluse il suo discorso con un allegro: «Signore e signori,
buonasera e arrivederci».
    Nello stesso tempo Arcalli e Padoan, ai due lati, sempre tenendo sotto il tiro delle armi i fascisti presenti
(c'erano quattro della X" MAS in seconda fila delle poltroncine), lanciarono numerosi manifestini.
    Prima di uscire Citton salito lui pure sulla ribalta, secondo le istruzioni, gridò: «Nessuno si muova! Il teatro
rimane circondato per mezz'ora! ».
    Non era vero. Fuori non c'era nessuno, salvo i nostri collaboratori.
    I nazifascisti presenti, ufficiali e soldati della G.N.R., delle Brigate Nere, della Wehrmacht, sbigottiti e
impauriti (qualcuno, ricordo, si nascose dietro le spalliere delle poltrone) non reagirono.
   Non pochi spettatori raccolsero i manifestini, li lessero e se li passarono fra loro.
   L'azione partigiana stava per concludersi felicemente: avevamo occhi dappertutto. Ma grande ormai era la
gioia che riempiva il nostro cuore.
   Il risultato ottenuto era comprova dell'efficienza organizzativa, politico-militare, della nostra formazione.
   Vorrei qui ricapitolare la fisionomia e le componenti sociali di questo gruppo di uomini e donne: uno di
loro era stato emigrante in Germania a 12 anni e aveva lavorato nelle fornaci; un altro quand'era studente
all'Università di Bologna, bastonato dagli squadristi, era giunto all'ospedale in coma; ci fu chi aveva
accumulato sulle spalle dieci anni di servizio militare e silurata la nave sulla quale era imbarcato era stato
tratto in salvo, per miracolo, molte ore dopo in mare aperto; e poi coloro che provenivano dall'insegnamento,
dalle fabbriche e dalle officine, -l'operaio, l'impiegato, il fabbro, il meccanico, il tipografo e ... in presa
diretta, con un qualche sapore risorgimentale, gli immancabili studenti: Kim, Cesco, Michele, Borel.
    A distanza di tanti anni provo viva commozione nel ricordare i compagni che in questa vicenda, passata
alla cronaca e alla storia della Resistenza come la «Beffa del Teatro Goldoni», mi furono così
straordinariamente vicini, decisivi e fedeli.


  Ecco i loro nomi: Franco Arcalli (Kim), Ivone Chinello (Cesco), Ottone Padoan (Michele), Giovanni
Citton (Moro), Mario Borella (Livio), Renato De Faveri (Oc), Giovanni Dinello (Borel), Giovanni
Guadagnin (Gin). Otello Morosinì (Totò), Mario Osetta (Leo), Delfino Pedrali (Gastone), Maria Teresa Dorigo (Alice), Gina De Anna, Luigi Busulini (Gigio), Carlo Fevola (Cadetto), Giacomo Tenderini (Massimo,) prof. Giuseppe Vecchi (Vianello).


    Pochi minuti dopo i compagni erano fuori dei teatro: tutto era andato bene e le armi messe al sicuro. Fu
dato l'ordine di separarsi.
    lo, Alice, Gina e Livio rimanemmo in teatro e ci divertì molto assistere all'arrivo di contingenti della
G.N.R., delle Brigate Nere e della X° MAS, armatissimi, i quali, non potendo far altro, si adoperarono a
raccogliere i manifestini. Li vedemmo pure rivolgersi agli spettatori, scusandosi, chiedere se per piacere li
davano a loro.
    L'indomani fu tutto nostro: una giornata piena di sole, l'avvenimento di dominio pubblico e il popolo
veneziano sceso nelle strade, sorrideva, ironizzava, sembrava rialzare il capo, faceva sua la beffa partigiana.
    Le forze della Resistenza ne furono rianimate, così come le speranze dei nostri compagni in carcere,
mentre cadde l'albagia e la prepotenza dei nazifascisti che fino ad allora avevano spadroneggiato nella città.
   Qualche giorno dopo le radio di Lugano, Londra e Mosca si impossessarono della notizia e ne fecero
oggetto di commento.

Venezia, Aprile 1975

                                                                                                     GIUSEPPE TURCATO (MARCO)

Nota -Mi giunse notizia, attraverso i canali segreti del C.L.N., che il fatto era stato commentato nella sede
della Platzkommandantur e che il col. Reichel (il quale da tempo aveva contatti con. emissari del Comando
Piazza C.V.L.) parlando coi suoi ufficiali ebbe a dire «Toll!.·. ; unbesonnen diese Italìenerl» . «Fantastico!, ..
però, questi Italiani .. .,», Di lì a qualche giorno il col. Reichel fece sapere che avrebbe desiderato
conoscere chi aveva' ideato e realizzato l'impresa," offrendo ogni, garanzia di incolumità. La proposta mi
tentò perché avrebbe. potuto dare risultati positivi, senonché padre 'Giulio, dal suo «osservatorio» del
Patriarcato, a sua volta avvertì che la proposta del colonnello Reichel era fatta: 'sì in buona fede, ma che
questi non si rendeva conto di quanto si fosse stretta, intorno a lui; in quel periodo, la sorveglianza delle S.S.
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