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ORA E SEMPRE RESISTENZA

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venerdì 4 marzo 2011

8 Marzo 2011 - Le donne nella resistenza


Le donne nella resistenza

La seconda guerra mondiale come la prima, ha coinvolto ancora di più le donne, che subiscono in prima persona  le  distruzioni dovute ai bombardamenti,  la carenza di cibo,  la morte dei propri cari e  le persecuzioni razziste, fino alla  ferocia nazista che porterà all’Olocausto.
Un grande apporto alla liberazione dal nazifascismo  è stato fornito dalla società civile, società che naturalmente comprendeva sia uomini che donne.  La storiografia  "politica" però ha  privilegiato solo gli uomini, dando loro i più grandi meriti e senza tenere troppo in considerazione quello che è stato l'apporto delle donne, relegandole ad un ruolo secondario. Sarebbe stato giusto invece dare loro  risalto e merito per il loro importante contributo e non lasciarle in secondo piano.

Così non è stato e si è dovuti arrivare solo alla fine degli anni settanta per vedere  riconosciuta finalmente la vera  storia della Resistenza,  che approfondendo  il rapporto tra le donne e la lotta di liberazione, ha fornito nuove interpretazioni sulla Resistenza in Italia.  L'intera vicenda della guerra e della resistenza  è stata quindi rivisitata "attraverso una diversa prospettiva e un diverso approccio”  quello della storia delle donne,  rileggendo questioni  e processi  che hanno segnato i momenti  fondativi e la successiva intera storia  dell'Italia repubblicana".
Le donne italiane,  fin dall'8 settembre, sono sempre state vicine con cura solidale ai soldati sbandati, ai prigionieri fuggiti, e poi via via agli ebrei, ai renitenti alla leva, ai ricercati, ai bambini. Nel loro essere sorelle, figlie, madri e mogli c’era anche una volontà   di forte protagonismo e  di cittadinanza, da vivere analogamente a quella maschile, che esaltasse fortemente  la propria autodeterminazione.
Tutto ciò sarà determinante e avrà la sua influenza con  effetti sul carattere delle donne coinvolte in questo processo civile: coraggio fisico e resistenza psicologica, capacità di prendere rapidamente  decisioni drammatiche da sole, di controllo e di operatività , in campi nuovi per il mondo femminile, saranno un vero banco di prova dove si sono cimentate con prontezza e generosità.

Capacità e operatività che continueranno in essere presenti nelle donne anche dopo la fine della guerra: nelle reti di assistenza ai reduci, agli sfollati, ai bambini: caratterizzando  così un attivismo politico  delle donne  fino all’espandersi delle grandi associazioni popolari femminili come, l'UDI e il CIF.
Moltissime  donne si sono impegnate anche senza imbracciare le armi, contribuendo, con azioni antagoniste e determinanti  alla caduta del nazismo e del fascismo, consentendo  così  il propagare anche del concetto  che non esisteva solo un’ unica resistenza  armata, ma bensì c’era anche quella altrettanto incisiva del non collaborazionismo e della “Resistenza passiva”. 
Nonostante un proclama che condannava a morte tutti coloro che davano rifugio a qualcuno, molte persone  del popolo e dei ceti medi nascondevano i "perseguitati" nelle loro case. Tale scelta li costringeva  ad  arrangiarsi come potevano  dividendo con "gli ospiti" quel poco che avevano  a causa del razionamento ulteriore di tutti i prodotti di prima necessità  ridotto in piccole quantità dal “tesseramento”.
Furono soprattutto le donne a dare un rifugio alle persone che fuggivano dai rastrellamenti e che per mettersi completamente in salvo non avevano a disposizione ingenti somme di denaro e di relazioni forti che garantissero loro l'incolumità; questo è stato sicuramente uno degli esempi di resistenza civile messa in atto dalle donne.
Il comandante partigiano socialista, Boldrini, sosteneva che un esercito normale avesse bisogno per ogni combattente dell’aiuto di 7 civili; altri  sostenevano che il rapporto fosse di 1:15; questo apporto di civili  per combattente era dato per il 90% da donne che: cucinavano,  rivestivano il ruolo di staffette,  portavano le armi, curavano i feriti, etc..
Poiché si credeva che destassero meno sospetti e fossero meno soggette alle perquisizioni,  venivano impiegate  ragazze di 16, 17 o 18 anni che garantivano i collegamenti tra le varie collocazioni partigiane; a differenza della “donna partigiana” che aveva il più delle volte un'arma con la quale difendersi,  quello della “staffetta” ,  come si può immaginare,  era un ruolo molto più pericoloso, era incombente il rischio di venire catturata,  con il rischio di essere torturate,  con la responsabilità di non dare nessuna informazione.
Viene spontaneo quindi  chiedersi  per quale motivo non si  è saputo  niente di queste donne e del  loro ruolo nella resistenza, delle loro storie e delle loro immense sofferenze?
 Nell’immediato dopo guerra le istituzioni hanno riconosciuto come “partigiani combattenti” solamente chi ha militato per almeno 6 mesi in una banda riconosciuta e ha preso parte ad almeno 3 scontri armati.  In quella fase quindi le donne non sono state  riconosciute come partigiane perché non avevano tutti questi "requisiti",  mentre altre  vengono riconosciute solo come partigiane non combattenti.
Così con un processo di cancellazione istituzionale, come tutte le altre persone che hanno contribuito alla resistenza e che non sono state riconosciute come partigiani sono finite nel dimenticatoio.

Questo è il senso che si vuole dare ad una ricorrenza così importante per la nostra società, come la festa della donna, riportando alla memoria nomi e cognomi, racconti di tutte le donne che hanno, con il loro sacrificio e a volte anche con la  vita, reso possibile il nostro vivere quotidiano.
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sulle donne nella resistenza tratto dal sito dellìANPI nazionale