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ORA E SEMPRE RESISTENZA

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venerdì 4 marzo 2011

8 Marzo 2011 - Le donne nella resistenza


Le donne nella resistenza

La seconda guerra mondiale come la prima, ha coinvolto ancora di più le donne, che subiscono in prima persona  le  distruzioni dovute ai bombardamenti,  la carenza di cibo,  la morte dei propri cari e  le persecuzioni razziste, fino alla  ferocia nazista che porterà all’Olocausto.
Un grande apporto alla liberazione dal nazifascismo  è stato fornito dalla società civile, società che naturalmente comprendeva sia uomini che donne.  La storiografia  "politica" però ha  privilegiato solo gli uomini, dando loro i più grandi meriti e senza tenere troppo in considerazione quello che è stato l'apporto delle donne, relegandole ad un ruolo secondario. Sarebbe stato giusto invece dare loro  risalto e merito per il loro importante contributo e non lasciarle in secondo piano.

Così non è stato e si è dovuti arrivare solo alla fine degli anni settanta per vedere  riconosciuta finalmente la vera  storia della Resistenza,  che approfondendo  il rapporto tra le donne e la lotta di liberazione, ha fornito nuove interpretazioni sulla Resistenza in Italia.  L'intera vicenda della guerra e della resistenza  è stata quindi rivisitata "attraverso una diversa prospettiva e un diverso approccio”  quello della storia delle donne,  rileggendo questioni  e processi  che hanno segnato i momenti  fondativi e la successiva intera storia  dell'Italia repubblicana".
Le donne italiane,  fin dall'8 settembre, sono sempre state vicine con cura solidale ai soldati sbandati, ai prigionieri fuggiti, e poi via via agli ebrei, ai renitenti alla leva, ai ricercati, ai bambini. Nel loro essere sorelle, figlie, madri e mogli c’era anche una volontà   di forte protagonismo e  di cittadinanza, da vivere analogamente a quella maschile, che esaltasse fortemente  la propria autodeterminazione.
Tutto ciò sarà determinante e avrà la sua influenza con  effetti sul carattere delle donne coinvolte in questo processo civile: coraggio fisico e resistenza psicologica, capacità di prendere rapidamente  decisioni drammatiche da sole, di controllo e di operatività , in campi nuovi per il mondo femminile, saranno un vero banco di prova dove si sono cimentate con prontezza e generosità.

Capacità e operatività che continueranno in essere presenti nelle donne anche dopo la fine della guerra: nelle reti di assistenza ai reduci, agli sfollati, ai bambini: caratterizzando  così un attivismo politico  delle donne  fino all’espandersi delle grandi associazioni popolari femminili come, l'UDI e il CIF.
Moltissime  donne si sono impegnate anche senza imbracciare le armi, contribuendo, con azioni antagoniste e determinanti  alla caduta del nazismo e del fascismo, consentendo  così  il propagare anche del concetto  che non esisteva solo un’ unica resistenza  armata, ma bensì c’era anche quella altrettanto incisiva del non collaborazionismo e della “Resistenza passiva”. 
Nonostante un proclama che condannava a morte tutti coloro che davano rifugio a qualcuno, molte persone  del popolo e dei ceti medi nascondevano i "perseguitati" nelle loro case. Tale scelta li costringeva  ad  arrangiarsi come potevano  dividendo con "gli ospiti" quel poco che avevano  a causa del razionamento ulteriore di tutti i prodotti di prima necessità  ridotto in piccole quantità dal “tesseramento”.
Furono soprattutto le donne a dare un rifugio alle persone che fuggivano dai rastrellamenti e che per mettersi completamente in salvo non avevano a disposizione ingenti somme di denaro e di relazioni forti che garantissero loro l'incolumità; questo è stato sicuramente uno degli esempi di resistenza civile messa in atto dalle donne.
Il comandante partigiano socialista, Boldrini, sosteneva che un esercito normale avesse bisogno per ogni combattente dell’aiuto di 7 civili; altri  sostenevano che il rapporto fosse di 1:15; questo apporto di civili  per combattente era dato per il 90% da donne che: cucinavano,  rivestivano il ruolo di staffette,  portavano le armi, curavano i feriti, etc..
Poiché si credeva che destassero meno sospetti e fossero meno soggette alle perquisizioni,  venivano impiegate  ragazze di 16, 17 o 18 anni che garantivano i collegamenti tra le varie collocazioni partigiane; a differenza della “donna partigiana” che aveva il più delle volte un'arma con la quale difendersi,  quello della “staffetta” ,  come si può immaginare,  era un ruolo molto più pericoloso, era incombente il rischio di venire catturata,  con il rischio di essere torturate,  con la responsabilità di non dare nessuna informazione.
Viene spontaneo quindi  chiedersi  per quale motivo non si  è saputo  niente di queste donne e del  loro ruolo nella resistenza, delle loro storie e delle loro immense sofferenze?
 Nell’immediato dopo guerra le istituzioni hanno riconosciuto come “partigiani combattenti” solamente chi ha militato per almeno 6 mesi in una banda riconosciuta e ha preso parte ad almeno 3 scontri armati.  In quella fase quindi le donne non sono state  riconosciute come partigiane perché non avevano tutti questi "requisiti",  mentre altre  vengono riconosciute solo come partigiane non combattenti.
Così con un processo di cancellazione istituzionale, come tutte le altre persone che hanno contribuito alla resistenza e che non sono state riconosciute come partigiani sono finite nel dimenticatoio.

Questo è il senso che si vuole dare ad una ricorrenza così importante per la nostra società, come la festa della donna, riportando alla memoria nomi e cognomi, racconti di tutte le donne che hanno, con il loro sacrificio e a volte anche con la  vita, reso possibile il nostro vivere quotidiano.
clicca sull'immagine per aprire il documento
sulle donne nella resistenza tratto dal sito dellìANPI nazionale

venerdì 28 gennaio 2011

Bartolomeo Meloni e i Ferrovieri Veneziani contro l’occupazione tedesca

( tratto da uno scritto  “I CARRI PIOMBATI” di Antonio Zanon Dal Bo nel libro ’ Venezia nella Resistenza ‘ stampato dal Comune di Venezia nel 1976 e dal sito www.Sotziu.it)

Un buon modo di celebrare la giornata della memoria  è  quello di ricordare le gesta di persone che con il loro sacrificio hanno contribuito a riportare la democrazia  e la libertà nel nostro paese.
Persone che spesso hanno pagato con la loro vita l’amore per la loro Patria e per gli altri.
Dopo il fatidico 8 settembre, già alla fine di quel mese decisivo per le sorti dell’Italia,  si era giunti a determinare se la resistenza sarebbe dovuta continuare come semplice ripresa dell’antifascismo clandestino o se invece si sarebbe dovuta trasformare in una resistenza armata.
Per fare questo passaggio  l’antifascismo così come si era radicato avrebbe dato indirizzi e guide, trovando la forza di passare dalla critica ideologica all’elaborazione di programmi politici di ribellione contro la dittatura, con la conseguente partecipazione attiva nella guerra di liberazione.
Molti ferrovieri veneti, sia del personale esecutivo  che di quello direttivo,  si misero subito  a disposizione del CLN regionale, guidato da un uomo che aveva in mezzo a loro un grande prestigio morale e un grande ascendente, l’ing. Bartolomeo Meloni.
Meloni nato a Cagliari nel 1900 si era  laureato in ingegneria al Politecnico di Torino ingegnere, dal 1926 ingegnere ferroviario, è ispettore generale delle Ferrovie dello Stato a Venezia dove risiede continuativamente eccetto due anni in cui è trasferito a Milano per sovrintendere alla costruzione della nuova stazione ferroviaria . 

                                   Immagine della vecchia stazione ferroviaria di Venezia negli anni 30

Ispettore Capo delle Ferrovie a Venezia, anche se la sua attività clandestina si è svolta in un brevissimo tempo, (due mesi), con il suo incontro con Silvio Trentin, ha contribuito a scrivere l’inizio di una delle imprese più epiche della resistenza veneziana.
Meloni grazie alla sua esperienza di tecnico, mise a disposizione  del primo CLN regionale costituitosi proprio il 10 settembre, il suo prestigio nell’ambiente ferroviario  e un gruppo di compagni di lavoro che fu in grado di continuare la sua opera anche dopo la sua cattura avvenuta presto, il 4 novembre  dello stesso anno.
I tedeschi volevano convogliare verso la Germania il maggior numero possibile di ufficiali e soldati italiani per servirsene come forza lavoro o eventualmente di combattimento; nella peggiore delle ipotesi per non averli come forza contraria.
 I comitati invece volevano farli restare in Italia per creare il nuovo esercito di liberazione  partigiana. 
Silvio Trentin nel proclama ai veneti “Guardia avanzata della nazione” che scrisse a nome del primo CLN , aveva individuato  che il contrasto a quelle direttive di deportazione di massa  dovesse essere particolarmente impegnativo e serrato proprio nel la nostra regione dove passavano le  vie di comunicazione con l’Austria e la Germania.
Lìazione antifascista clandestina volta quindi non più a impedire o ritardare l’occupazione tedesca, ma piuttosto a salvare i nostri soldati  dalle deportazioni e  a indirizzarli alla resistenza;  fornire alle nuove formazioni militari  armi, munizioni ed equipaggiamenti sottratti ai tedeschi; aiutare per motivi umani e politici i prigionieri alleati rimasti liberi e i tanti ebrei minacciati dalla persecuzione razzista avviandoli verso mete di salvezza.

Armando Gavagnin, fra i fondatori del Partito d'Azione e sindaco di Venezia dopo la Liberazione, ricorda, nel suo libro di memorie Vent'anni di resistenza al fascismo, di averlo conosciuto alla Siderocemento di Venezia, che fu nel periodo precedente e successivo ai quarantacinque giorni di Badoglio la sede dell'attività clandestina del PdA .
Bartolomeo Meloni si iscrive al partito dopo alcune sue incertezze dovute al problema di conciliare la fede cattolica con l'impegno in un partito che si dichiarava laico e socialista .
Scoppiata  la guerra aveva capito che era giunto il momento di prepararsi all’azione cercando un appoggio solidale conforme al proprio orientamento politico.
Approfittò della sua posizione d’ispettore principale delle ferrovie per dedicarsi all’organizzazione sindacale democratica dei ferrovieri.
Acquistò ben presto  fra i compagni di lavoro un ascendente, per  la sua integrità morale, per la sua simpatia umana e le sue capacità di guida.
Dopo l’armistizio  Meloni seguendo l’indicazione a resistere ad ogni tentativo di occupazione nemica,
con un numero notevole di “volontari”, che poi aumentando via via, avrebbero formato le due brigate “Matteotti”, la X° e l’XI°, preparò con i compagni di lavoro un piano per impedire l’uso dei trasporti ferroviari per l’occupazione.
Ben presto in accordo con le indicazioni dei comitati politici il piano dei ferrovieri fu indirizzato ad una vasta operazione intesa a inutilizzare o ritardare con sabotaggi ben organizzati i treni e le tradotte militari, dove soldati e marinai italiani venivano ammassati dai tedeschi in carri piombati e trasportati in Germania, provocarne fermate inattese in località dove fosse previsto il contemporaneo arrivo delle prime formazioni partigiane delle “Osoppo” che operavano nel Friuli, per assalire i convogli, come nei film western, liberare i rinchiusi, avviarli non solo verso la salvezza, ma liberamente,  anche verso un’attività di clandestinità armata.
Viene riportato nel “Notiziario storico della seconda divisione partigiana “Matteotti”: Venezia 29.9.1943, ore 22,30. Per impedire e ritardare la partenza delle tradotte militari, essendo queste troppo sorvegliate venne attuato il taglio dei tubi di gomma per la condotta d’aria dei freni, e successiva asportazione degli stessi; immissione di sabbia nelle boccole delle ruote e provocato riscaldamento assi previa asportazione dei guancialetti. Le operazioni dei ferrovieri veneziani, avvenivano in presenza della scorta tedesca dando l’impressione di svolgere il normale lavoro ferroviario. Nel notiziario vengono indicati i nomi degli autori:
Ugo Cecconi, Giovanni Cumar, Mario Orsini, Adrio Politi, Vittorio Romanin, Sergio Marchiori, specializzati in questo tipo di azioni.
Per fermare o rallentare i treni in determinati posti si ricorreva talvolta a rialzi ben calcolati del livello delle traversine.
In molti carri si riuscivano a introdurre di nascosto, prima che i carri fossero sigillati, cibi, bevande per confortare i rinchiusi, e talvolta si aggiungevano coppie di “piedi di porco” coi quali era possibile sollevare dal di dentro le assi del pavimento dei carri e approfittare di qualche fermata notturna, tanto meglio se in un tunnel, per uscire da sotto.
Si è sentito spesso parlare di una leggenda che raccontava  di carri che giungevano a destinazione, piombati ma vuoti, era una leggenda basata su una buona base di verità.
Furono salvati così soldati che non erano riusciti a scomparire nella gran fuga iniziale, marinai, studenti del collegio marinaro di Sant’Elena, anche soldati e marinai trasportati in Italia su navi italiane, come prigionieri dei tedeschi, dalla Jugoslavia e dalla Grecia.
Il numero delle persone che si sono salvate è difficile da calcolare; ma si può affermare con certezza che, se la resistenza partigiana si è consolidata e rafforzata grazie alle pronte fughe dalle caserme e dalla solidarietà della popolazione di città e di campagna, queste operazioni dei ferrovieri veneziani contribuirono a ingrossare le formazioni partigiane con le quali venivano concordate le azioni di salvataggio e di sabotaggio.
Contribuirono inoltre con la sottrazione di armi, munizioni ed equipaggiamenti alle forze tedesche ad aumentare l’efficienza delle fila componenti la resistenza nella pianura e nelle montagne venete e friulane.
La circostanza che ci interessa qui a sottolineare è che molti di questi tipi d’azione vennero, non sappiamo se anche  ideati, certo iniziati e portati avanti dall’ing. Meloni in meno di due mesi di attività, durante i quali trovò anche il tempo di partecipare a riunioni politiche del Partito d’azione, che talvolta ospitava in casa sua.
Egli fu arrestato nel suo ufficio il 4 novembre dalle  SS tedesche mentre i fascisti perquisivano e saccheggiavano il suo appartamento.
 L'arresto di Meloni «fece tremare molti cuori, ma soltanto per la sorte del fratello,  tutti sapevamo che egli non avrebbe parlato» .

Le azioni  dei gruppi dei ferrovieri non si fermarono con il suo arresto,  furono portate  avanti fino alla liberazione da Lindoro Rizzi e da Vittorio Menegazzi e da gli altri compagni di lavoro ferrovieri che avevano seguito l'esempio di Bartolomeo Meloni.
Dopo l'arresto Meloni è portato nel carcere di Santa Maria Maggiore, dove resta due mesi e mezzo, poi a Verona da dove è deportato in Germania nel campo di concentramento di Dachau.

Anche nei lunghi mesi della prigionia continua ad assumere su di sé il peso del dolore degli altri e a diffondere la fiducia in una società diversa e giusta in cui non sarà più possibile la barbarie nazista.

                                                 Il cancello del campo di sterminio di Dachau
Il sacerdote don Giovanni  Fortin, che gli è compagno di prigionia, ricorda il primo incontro: «C’incontrammo i primi giorni ed ivi scambiammo le nostre impressioni; e dico il vero, mai ho trovato un'anima così aperta, un'anima così profondamente conoscitrice delle umane miserie, un'anima che sentisse veramente il palpito di amore e di tenerezza fraterna per i sofferenti» .
 
La vita nel campo di concentramento è un inferno a cui solo fibre eccezionali hanno resistito: «Fummo spogliati delle nostre vesti, spogliati, depilati e disinfettati — dicevano loro — con petrolio, e all'aria aperta, a trenta gradi sotto zero, nudi, fummo costretti a correre sulla neve, fatti segno di obbrobrio e di ludibrio da parte della milizia tedesca» .
Da Dachau viene trasferito in un campo di concentramento in Cecoslovacchia dove è costretto a lavorare nei campi. Il cibo non è sufficiente a rigenerare l'organismo per la fatica del giorno dopo e i prigionieri deperiscono in poco tempo. Una sera Bartolomeo Meloni non si regge in piedi dopo il lavoro: «Tornato alla baracca si pose del suo giaciglio, prese sonno, e all'ora dell'appello non poté comparire sulla piazza. Si cercò il mancante e lo si trovò addormentato sopra il giaciglio. Montato in furia il capo della baracca, con un grosso nerbo di bue lo percosse a tale segno da farlo credere morto. Da quel giaciglio non si poté levare; e si giustificò allora l'assenza del colpito, l'assenza del battuto; soltanto allora fu giustificato all'appello»
Trasferito nuovamente a Dachau ancora in gravi condizioni, vi muore il 9 luglio 1944.
Per i compagni che, finita la guerra ne aspettavano il ritorno, l'annuncio della sua morte è un grave colpo. Vengono indette manifestazioni per ricordarlo. In particolare il Circolo artistico di Venezia, del quale Meloni era stato socio e animatore — perché anche per i suoi interessi e le sue conoscenze dell'arte s'era fatto apprezzare — fanno affiggere una lapide nella sala maggiore del Palazzo delle Prigioni che tuttora lo ricorda: «Martire per la Patria e la Libertà — Bartolomeo Meloni — coi primi patrioti veneziani qui — cospirò per la rivolta e la liberazione»
A Venezia, nel palazzo della ex sede delle Ferrovie, in fianco alla stazione,  ora occupato dagli uffici della Regione  Veneto  è visibile nell’androne delle scale,  una lapide a ricordo dell’Ing. Meloni deportato a Dachau.

     Immagine degli anni 30 della Sede Compartimentale delle Ferrovie dello Stato di Venezia  fino agli anni 90, ora Sede  di alcuni Dipartimenti della Regione Veneto

Nella sua terra,  la Sardegna , per ricordarlo gli è stata intitolata una piazza nella cittadina di  Santu Lussurgiu in provincia di Oristano.
Anche noi con questo  nostro piccolo contributo vogliamo ricordare, oltre alle gesta coraggiose e generose dei ferrovieri veneziani, anche  la figura di questo uomo che per i suoi ideali e per quei valori che non poteva vedere  calpestati, non ha esitato a mettere a  repentaglio la propria posizione sociale e professionale, fino a rischiare la propria vita.
 GIORNO DELLA MEMORIA - Spinea 27 gennaio 2011 

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venerdì 21 gennaio 2011

LA RESISTENZA NELLE NOSTRE CAMPAGNE


 Con questa ulteriore testimonianza, tratta da un'edizione dal Comune di Venezia del 1975 a cura di Giuseppe Turcato e Agostino Zanon Dal Bo, continua la pubblicazione su questo SITO delle testimonianze dell'attività dei gruppi partigiani nelle nostre campagne.
Un modo per ricordare e onorare la memoria dei nostri concittadini trucidati dai fascisti delle Brigate Nere a Mirano.

GUERRIGLIA IN PIANURA 

27 aprile 1945. 
Uccio, staffetta partigiana, mi porta la notizia che l'insurrezione è già in atto.
 Eccher ci aspetta al ponte dell'Olio, dobbiamo raggiungere subito Mirano; in piazzale Roma sono pronte le biciclette.
Sono stato tanti giorni chiuso tra una stanza  e un sottoscala di palazzo Morosini a Santa Maria Formosa;  per la strada mi sento come la febbre addosso.
Dopo campo  SS. Apostoli  voglio entrare a Ca' Littoria.

                                                                             
C'è un via vai di partigiani armati, un moto topo sul Canal Grande in partenza per un possibile attacco ad una postazione della  g.n.r.  nella zona portuale.
 C'è uno che mi esorta perché m'imbarchi.
 Ho uno scatto: «Ma chi sei tu?» - «Colonnello Filipponi  del  Comando  Piazza». 
Gli rispondo: «No, colonnello, no, io devo assolutamente raggiungere Mirano».
Per Strada Nuova si spara, i partigiani sono addossati ai muri, io cammino in mezzo e non bado.
Mi richiamano, macché, non c'è gusto,  dopo quello che ho passato mi pare una sciocchezza tanta
prudenza.
Con Eccher ero venuto a Venezia qualche mese prima con una moneta di carta da due lire, tagliata a metà,  per riconoscimento,  da «Leone» (Cavallet) in Corte dell'Orso.


Con i rastrellamenti avevamo avuto troppi  morti: l'11 ottobre quattro partigiani, caduti in combattimento;  il 1° novembre «Negrin» (Licori ), fucilato; il 10 dicembre 1944 i sette della «Luneo» torturati,  massacrati e gettati sulla piazza di Mirano;  il 17 gennaio 1945 altri sette, fucilati al cimitero e molti altri catturati e in carcere,  anche Don Amedeo Cornetto.

All'appuntamento manca Eccher.
Era stato preso dai tedeschi  e portato a Verona:  riuscirà a fuggire dopo qualche giorno.
Qui a Venezia c'è uno sbandamento come da noi. 
Bisogna arrangiarsi.
Una notte ho coliche renali, mi ricoverano in chirurgia all'Ospedale Civile.
Dopo due tre giorni la mamma di Eccher e mio fratello mi portano dei vestiti e mi avvertono che le brigate nere stanno arrivando per catturarmi.
Il fascista capitano Luxardo, nostro ex compagno di liceo al «Marco Foscarinì», che mi braccava, apostrofa il dottor Lago, medico di Mirano e mio amico, dando per certo che mi avrebbero impiccato in piazza.
Con l'aiuto del prof. Vecchi, e in fretta  e furia, andiamo fuori dell'Ospedale.
Ripariamo dentro il caffè Cavallo, mentre in Campo SS. Giovanni Paolo arrivano le brigate nere.
Era stato questione di pochi minuti.
La signora Pierina è spaventata, confusa, ma ha un modo di fare che quasi mette allegria, tale e quale suo figlio.
 Anche lui pare che il partigiano lo faccia per gioco, mentre è nel suo carattere essere così disinvolto e allegro.
 Al disarmo della polizia di Chirignago ha fatto la parte del ladro: era uno stratagemma;  gridava come un ossesso, mentre i compagni lo portavano verso la caserma e agli agenti di guardia, che si erano avvicinati, «mi hanno trovato questa», - diceva -, puntando la pistola.
 C'erano trenta agenti che furono messi in condizione di non nuocere e le armi portate via.
Un'altra volta dovevamo requisire le scarpe dal magazzino della caserma della guardia nazionale repubblicana, come avevamo fatto per il bestiame al raduno fascista della SAMA a Camposampiero e
per le coperte prelevate a Treponti al deposito tedesco e inviate in montagna.
Eravamo arrivati in bicicletta fino a Santa Maria di Sala, si doveva attraversare via Caltana, una strada alberata dove c'erano in sosta una decina di camion tedeschi.
Si sarebbe dovuto fare un lungo giro per evitarla, ma non c'era tempo; io ero preoccupato, lui, veneziano e non abituato alla sella della bicicletta, gongolava.
Propose anzi pane e salame, in una trattoria vicina, «così» - disse - «se moriremo sarà con la pancia piena».
Decisi di passare tra i tedeschi, a  gruppetti  di uno,  due alla volta,  pronti a intervenire.
Ci è andata bene.
Avevamo l'entusiasmo e la spavalderia dei nostri venticinque anni.
Un episodio indimenticabile la forza d'animo, il coraggio, davanti alla morte, di «Negrìn» prima di essere fucilato.
Eppure non ebbe alcuna medaglia al valor militare, nemmeno alla memoria,  per noi sacra.
Poco o nulla è stato fatto per far conoscere il contributo dato da questi oscuri eroi.
Piazza Martiri - Monumento al partigiano  dello scultore Augusto Murer
Quella mattina prima che lo fucilassero c'era folla in piazza davanti alla casa del fascio; io mi sono avvicinato, sono certo che anche lui mi ha visto. 
Infiltrandomi tra la gente mi sono trovato  vicino a Zanchin, il direttore della scuola.
Sono corso a casa di Demonte.
Credevamo di farcela a salvarlo.
Pochi giorni prima il distaccamento «Volga», del quale era comandante, era stato attaccato, a Stigliano, dalle brigate nere.
Le guidava un uomo di ben trista fama, il professor Santi.
Feci i due chilometri, che ci separavano, tutti di corsa, alla testa d'una quindicina di partigiani.
 Al nostro arrivo i fascisti scapparono sul camion. «Negrìn» e il suo vice «Moretto» erano feriti, li sostituiva «Bill».
Mi fermai nel suo accampamento fino a sera.
Tra i prigionieri c'era un tenente delle S.S.
 Lasciai di rinforzo «Fantasma» e Zucca.
All'inizio della lotta il primo C.L.N. era composto da Giancarlo Tonolo del Partito d'Azione, da un comunista,  Michele Cosmai,  altra mirabile figura di antifascista,  da un democristiano,  Luigi Bianchini, da un socialista, Sperandio.
Nel novembre 1943 la missione «ARGO».
Tonolo accoglie il capitano Rossoni,  sbarcato con un sottomarino a Chioggia e mantiene i collegamenti tra il C.L.N. Regionale Veneto e il Comando Alleato.
A Mirano convengono, in più occasioni, alcuni rappresentanti  del C.L.N.  Veneto.  
Ricordo in modo particolare: Ponti, Tonetti e Pasetti.
Fu un crescendo di speranza con i primi lanci alleati, con radio Londra che trasmetteva.
 «255 bianco, il vento è spento, la pioggia è cessata».
Nel periodo estivo il morale era altissimo, anche se la vita d'accampamento, sotto una tenda tra i filari di vite, era dura a causa dei continui spostamenti.
L'iniziativa degli attacchi ai fascisti e ai tedeschi era sempre nostra: caserme di Santa Maria di Sala, Dolo,  Noale,  Scaltenigo,  Mirano,  Marghera,  Chìrignago, e in molte altre azioni condotte in comune accordo con la «Garibaldi Padova» di Molinari e Sabatucci e la «Guido Negri» di Ranzato e Confi.
Una notte di settembre siamo arrivati a Briana, pioveva.
Avevamo cercato di avvicinarci al fienile, ma i contadini si sono messi a sparare scambiandoci per dei presunti  zingari che infestavano la zona.
Eravamo una trentina.
 Abbiamo passato la notte sull'erba sotto la pioggia.
 Alla mattina abbiamo preso contatto con i contadini.
Siamo rimasti in quelle campagne fino al memorabile combattimento del Parauro dell'11 ottobre 1944.
I fascisti della guardia nazionale repubblicana, le brigate nere della «Muti» di Padova,  della «Asara- di Venezia,  di Treviso  e di altri centri sommavano ad alcune centinaia.
 Quattro i compagni caduti: Aiello,  Siciliano,  Bordoni, Emiliano, De Cesaro di Castelfranco, Zucca, sardo.
Dei fascisti molte decine tra morti e feriti come testimoniò anche l'ex Prefetto di Venezia,  Barbera, dopo la liberazione.
Eravamo stati attaccati verso mezzogiorno.
Ho ancora davanti agli occhi una sensazione strana:  il tempo passava quasi senza che me ne accorgessi,  il sole si muoveva visibilmente e calava di colpo a ponente sull'accampamento del «Barba» che era stato attaccato più aspramente di noi.
Altre impressioni di quel giorno: ... a sera il lamento di «uno» che con crescente esasperazione, ripeteva  «Salviati. ... Salviati ... »; ...  il battito convulso che mi prese quando ci siamo portati fuori zona, battevo i denti e non riuscivo a tener ferma la mascella neppure con tutte e due le mani, era la speranza di vivere che tornava; ... quella scodella di grappa appena stillata, alle due di notte, in una casa di Cappella, dove avevamo veduto la luce accesa e una povera donna spaventata che mi gridava: «ti bruci le budella», e mi faceva bere su un secchio pieno di latte, ma a me la grappa era sembrata acqua fresca; ... le undici carte da mille, ridotte ad un ammasso poltiglioso per le traversie di quel giorno, tra l'acqua dei fossi, che avevo messo, con tanta cura, stese vicino al fuoco, e nel gran discorrere con i partigiani della «Lubian - Trentin»
di Bortolato, avevano preso un bel color tabacco e toccando le si sono sbriciolate.
Una lapide sulla strada del Parauro e un monumento al cimitero ricorda i Caduti della «Martiri di Mirano», la mia brigata. (1) In questi giorni un'altra opera in bronzo, scolpita da Murer, ripropone la figura del partigiano sulla nostra piazza, là dove furono trucidati sei giovani contadini appartenenti al «distaccamento Luneo».
Il settimo, Bovo Mosé, fu ucciso sull'aia davanti alla madre terrorizzata.
Ogni tanto rivedo qualcuno dei miei compagni: Bruno Ballan,  Armando Cosmai,  Bruno Tomat - Demonte,  Ruggero Eccher,  Giancarlo Tonolo,  Giovanni Bortolato,  Luigi Bianchini,  Vladimiro Zanchi, Gioacchino Gasparini,  Attilio Sgnaolin,  i fratelli Masaro,  Giovanni Masiero,  Coi, Berto De Bei,  Vescovo e «Titti» la nostra staffetta.
Quando ho l'occasione di passare per Crocetta del Montello,  dov'è parroco, mi fermo a salutare Don Amedeo Cornetto.
L'ultima volta mi presentò una delle poche bottiglie che aveva di quel suo raro vino di uva fragola.
Al ricordo di quei giorni sorrideva e scuoteva la testa, ma nel sorriso, oltre il suo sguardo buono, si è fermato il ricordo dei dileggi, delle bastonature, di quando pesto ed insanguinato era uscito dalla casa del fascio verso i lunghi mesi di carcere a Santa Maria Maggiore.

Venezia-Mirano, 1975
MARIO ZAMENGO (TENENTE)

(1) La Brigata «Martiri di Mirano» su un organico di 109 partigiani combattenti ha avuto 36 caduti (il 30% degli effettivi) dei quali: 17 morti in combattimento, 11 fucilati, 7 trucidati e l deceduto in carcere.

 (tratto dal volume 1943-1945 VENEZIA NELLA RESISTENZA - TESTIMOMIANZE -  Comune di venezia 1975-1976)



                                   Manifestazione contro il Razzismo a Mirano 12 Dicembre 2009



CITTTADINI DI SPINEA CADUTI PER LA LIBERTA' 
 LE LORO STORIE
 
                                                                           BRUNO GARBIN anni 18
                                                                           GIOVANNI GARBIN anni 22
                                                                           Nati a Spinea facevano parte della formazione partigiana
                                                                          " LUNEO "che subì numerosi arresti grazie alla delazione
                                                                           di una spia.
Con altri quattro partigiani ( Cesare Chinellato, Cesare e
Severino Spolaor, Giulio Vescovo) vennero turturati e
trucidati nella casa del fascio di Mirano nella notte tra il
10 e 1'11 Dicembre 1944.
I cadaveri martoriati vennero esposti, per l'intera giornata,
nella piazza del paese come monito alla popolazione.
Un settimo giovane, Mosè Bovo, fu trucidato nell'aia di casa davanti ai genitori.
LUIGI DA LIO anni 27 cittadino di Spinea
Catturato dai nazifasisti venne impiccato a Sospirolo ( BL )
il 17.02.1944
TIBALDO NIERO anni 22 cittadino di Spinea
Militava nella resistenza piemontese,arrestato venne ucciso
mediante impiccagione a Villar Perosa (TO )iI 14.08.1944.


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Il prossimo contributo riguarderà la determinante e costante azione di resistenza svolta dai ferrovieri veneziani con il capitolo tratto dalla stessa pubblicazione del Comune di Venezia - Antonio Zanon Dal Bo - dal titolo:  CARRI PIOMBATI - I ferrovieri contro l'occupazione tedesca

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domenica 12 dicembre 2010

12.12.2010 ANPI SPINEA - CONGRESSO DI SEZIONE

Si è svolto oggi 12 dicembre  il Congresso della  Sezione dell'ANPI di Spinea.
Erano presenti oltre agli iscritti aventi diritto al voto, anche vari ospiti invitati in rappresentanza: Mario Bonifacio dell'Anpi Provinciale,  Stefania Busatta dell'Amministrazione Comunale  Vice sindaco, oltre che  Giuseppe Grossa ex partigiano e internato in campo di concentramento.

L'apertura dei lavori è stata fatta dal Presidente uscente il partigiano Dino Veati , mentre la relazione e l'illustrazione del documento programmatico del XV° Congresso Nazionale è toccata al segretario uscente
(nella foto R. Sartor,V.Minichini, D. Veati. S. Busatta)

Vittorio Minichini, che ha illustrato i punti salienti del contenuto del documento nazionale.
Sono state illustrate le attività svolte in questo mandato, che nonostante l'esiguità di bilancio, hanno visto la sezione impegnata in un fervente lavoro di divulgazione di informazione improntata sopratutto nella divulgazione di materiale video nelle scuole.
E' stato riscontrato anche a Spinea un forte aumento dell'adesione all'Anpi, fenomeno che peraltro sta avvenendo anche a livello nazionale con lil raggiungimento dell'obiettivo di oltre 150.000 iscritti, con la presenza dell'ANPI in tutte e  le 110 provincie italiane.

Oltre a riportare alla luce la spinosa questione della mancata  presenza delle bandiere dei partiti politici in piazza in occasione del 25 aprile,  non è stata risparmiata una critica all'attuale Amministrazione per alcuni disguidi succeduti in occasione dello scorsa commemorazione della Festa della liberazione.

Proprio partendo da questo presupposto, approfittando della presenza istituzionale della Vice Sindaco Busatta, è stata colta l'occasione per rilanciare per l'anno prossimo un'iniziativa che veda la sezione di Spinea, sostenuta dall'auspicato ricambio innescato dalle nuove iscrizioni, impegnata con una Mostra di importante rilevanza che sarà presentata alla cittadinanza proprio il 25 aprile 2011, con il  sostegno anche dall'Amministrazione Comunale.
Nel suo intervento la Vice Sindaco scusandosi per quanto successo quest'anno, ha garantito la collaborazione dell'amministrazione per i  prossimi 4 anni.
La Busatta inoltre si è detta convinta che i valori e i principi contenuti nella Costituzione mai come adesso vanno difesi e sostenuti e riconosce all'Anpi  questo ruolo di difesa della democrazia attraverso la difesa della Costituzione.
(nella foto Giuseppe Grossa)
Si sono succeduti gli interventi di Giuseppe Grossa partigiano, reduce dai campi di concentramento nazisti che ha portato la sua testimonianza e  di Mario Bonifiacio partigiano rappresentante della segreteria Provinciale di Venezia dell'ANPI, che ha concluso il dibattito con una sua dettagliata relazione ricca di spunti storici realtivi alla sua esperienza partigiana.

Alla conclusione dei lavori delle Commissioni, politica, elettorale e amministrativa si è proceduto alla votazione del Direttivo :
Veati Dino, Minichini Vittorio, Sartor Raffaele, Firla Nicola, D'Atri Luca, Mainardi Loredana, Battaggia Paola, Semeraro Laura, Corò Gianni, Bertaggia Michele, Barbiero Paolo, Rampon Gino, Zett Antonio.

Delegati al congresso Provinciale del ANPI
Sartor Rafaele, Fontana Alessandro - Supplente - Bertaggia Michele


Nella prossima prima riunione del Direttivo saranno nominati il Presidente, 2 vice presidenti e il cassiere, come previsto dal nuovo statuto dell'ANPI.

Al nuovo Consiglio Direttivo l'augurio di BUON LAVORO nel motto, più che mai attuale,
                      ORA E SEMPRE RESISTENZA
V.F

mercoledì 21 luglio 2010

LA BEFFA DEL TEATRO GOLDONI

  Si tratta di un brano fra tanti raccolti in una serie di testimonianze  sulla lotta di liberazione nel centro storico, in laguna e in terraferma:  dal titolo "1943-1945 VENEZIA NELLA RESISTENZA  - TESTIMONIANZE - 
Si tratta di ricordi di quelli che furono i protagonisti, molti di loro oggi non ci sono più, ma che nel 1975/76 erano ancora presenti e alcuni diventati protagonisti della vita sociale e politica veneziana e italiana.
Una rassegna dettagfliata di tutti gli aspetti della  nostra Resistenza, fondata sui ricordi di coloro che vi hanno partecipato o su documenti fino a quel momento poco utilizzati o addiritura recuperati in quell'occasione: una serie di testimonianze che ricostruiscono il travaglio politico che è stato alla base di quelle vicende politiche.
Un libro che testimonia l'importanza del contributo dato da venezia alla Resistenza; un'importanza che non è stata sinora posta in luce adeguatamente, sia per venezia, sia per tutta la regione veneta che, nella storiografia più generale, hanno spesso parti soltanto marginali.
Nei venti mesi che vanno dal settembre 1943 alla Liberazione, Venezia è stata a lungo sede del C.L.N.  e del Comando Militare Regionale, particolarmente nel periodo in cui si preparava e poi si è svolta l'insurrezione: Venezia era il centro del compartiento ferroviario della regione e quindi di tutta l'azione che ha contrastato e sabotato l'occupazione tedesca, il centro dell'attività dell BRIGATE FERROVIARIE MATTEOTTI ilcui comitato esecutivo regionale è divenuto ad un certo punto, a riconoscimento dell'importanza e del valore della sua attività, "Giunta Militare Alta Italia"; il centro delle principali missioni informative organizzate d'accordo con gli alleati e la resistenza.
venezia diede moltissimi suoi cittadini alle formazioni partigiane della montagna e  nonostante ciò trovò modo di costituire formazioni partigiane vitalissime locali.
In particolare con il racconto che si vuole pubblicare si vuole rendere omaggio alla spregiudicatezza e alla determinatezza della Brigata Garibaldi "F. Biancotto" che il 12 Marzo 1945 riuscì in un impresa impossibile, prendendosi "beffa" delle B rigate nere e del Comando Tedesco a Venezia.


12 MARZO 1945

   L'inverno 1944-45 era stato duro per le forze della Resistenza: in seguito ai molti arresti perpetrati dai
nazifascisti in Venezia lo stato d'animo della popolazione e degli stessi ambienti clandestini di opposizione
era fortemente depresso.
   Nel dicembre 1944 erano finiti a S. Maria Maggiore molti miei compagni; fra questi: Gian Mario Vianello,
Jone e Iride Calò, i Preveato, padre e figlio, il capo Gap Guglielmo Forcolin, Ettore Angelin, Angelo e
Alessandro Zanoni, Giuseppe Marchesini.
    Sempre nel dicembre le Brigate Nere durante un rastrellamento compiuto a Murano scoprirono e
catturarono alcuni ex prigionieri di guerra, francesi e di altre nazionalità, che dopo 1'8 settembre 1943
avevano colà trovato rifugio e assistenza presso nostri amici. Pure in quei giorni Romano Zafalon era stato
individuato col suo vero nome e costretto a darsi alla macchia. Alla macchia viveva, da tempo, anche
Giuseppe Reato.
   Nel gennaio 1945 subimmo altri rovesci: furono arrestati Armando Pizzinato, Giuliano e Giuseppe
Lucchetta, Ada Besutti-Mazzotti. Altri compagni ancora finirono in carcere: Panizzutti, Rugotti, Enzo,
Marchiò, Zennaro, Bon, Ballarin, Moro .
    Il 24 gennaio Piero Franceschi riuscì a sfuggire alla cattura, ferendosi nella fuga che lo portò a salvezza. in
una casa amica.
    E' dalla valutazione che si dovesse necessariamente rialzare il morale dal nostro popolo, prepararne l'animo
alle esigenze insurrezionali, così come prospettate dal C.L.N., che trae origine l'azione di sfida aperta che un
pugno di partigiani della Brigata Garibaldi «F. Biancotto» compì la sera del 12 marzo 1945 al teatro Goldoni.
    Da tempo stavo inquadrando in un'unica formazione nuclei di patrioti, temprati dalle precedenti prove di
guerre sofferte e di lotta clandestina. Potevo giovarmi, quali diretti collaboratori, di elementi G.A.P., i temuti
gruppi di azione partigiana. Disponevo pure di uomini provenienti dalle formazioni di montagna e di pianura,
di molti giovani appartenenti al Fronte della Gioventù, in generale tutti abili nell'uso delle armi, ricchi, alcuni,
di una non comune esperienza di guerriglia.
   La maggiore difficoltà del mio compito, una volta riuscito ad inquadrare la formazione, consisteva
nell'innestare nei singoli elementi una coscienza e una disciplina militare collettiva. I più vivi mantenevano le
caratteristiche di punta dei G.A.P., mentre noi eravamo cresciuti durante quei due anni, in qualità e in numero,
sì da poter contare su una vera e propria brigata. Fra di noi i rapporti, pur nella necessaria gerarchia, si
potevano compendiare in questi termini: disciplina, lealtà, amicizia.
    Proposi un piano d'azione (comizio partigiano in un pubblico ritrovo) che servisse al duplice scopo di
rialzare il morale sia della popolazione che delle organizzazioni collegate al C.L.N., e mortificare la iattanza
dei nazifascisti, preparando così le premesse favorevoli per la non lontana insurrezione.

    nella foto Kim, Marco e Cesco, nel marzo 1945




***


   Eravamo consci di aver da tempo acquisita qualche apprezzabile esperienza di guerra o, se si vuole, di
guerriglia. Non pochi di noi avevano dovuto sopportare pressochè tutte le bellicosità del periodo 1935-1943:
esperienze quindi sulla pelle ... A queste si erano aggiunte dopo 1'8 settembre quelle (volontarie) dell'azione
clandestina di città, della guerriglia nella bassa Padovana, le esperienze nel Cansiglio e nei boschi del
Bellunese.
   Nel valutare i risultati ottenuti, positivi e negativi, avevamo concluso che fatti i conti, nulla o poco, era
stato da noi concesso all'improvvisazione o a quel genere di temerarietà che è vicino alla sconsideratezza.
   Noi del Gruppo Comando possiamo dire, in coscienza, di aver tenuto sempre presente il concetto di
responsabilità diretta e in diretta, di aver seguito e scrutato l'ordine illogico-e logico degli avvenimenti di
guerra, così come andavano manifestandosi, nella mutevole realtà di ogni giorno. Eravamo consapevoli di
essere uomini, cioè esseri fallaci.
   Dunque: operazione militare offensiva; scelta dell'obiettivo; obiettivo non disgiunto dal risvolto politico.
   Rilevazione' del «terreno»: termine questo che ricordava a più di uno di noi i temi tattici della scuola di
guerra.
   Preparazione psicologica degli uomini; valutazione dei mezzi a disposizione; adeguamento al grado di
efficienza del nemico e degli elementi contrari. Nessun ottimismo.
   Conclusioni e ripensamenti: la necessaria parte del diavolo. Il nostro divisamento, di massima, era questo:
una operazione di guerra, una volta iniziata, si deve portare a conclusione. Questa mia volontà era, di fatto,
condivisa da tutto il Gruppo Comando.
   Ciò non escludeva affatto il concetto di prudenza, per cui sempre avevamo badato a far sì che una, almeno
una, via di 'uscita ci fosse assicurata al momento della conclusione di ogni nostra operazione.
   Il Teatro Goldoni faceva al caso nostro, in quanto la sua topografia presentava prospettive favorevoli. In
ciò che progettai non c'era, tutto sommato, niente di chimerico e tantomeno le componenti pur suggestive e
tentatrici di proporre un qualcosa che si esaurisse soltanto in un episodio di valore spettacolare o
propagandistico. Volli colpire a freddo.
A  freddo, appunto, perché i fascisti erano ancora esultanti per aver conseguito, a nostro danno, dei successi che li avevano insuperbiti. L'obiettivo era lì: sembrava aspettarci. Dovevamo aspettare per qualche settimana;
aspettare che si godessero il loro festino (quanti dei nostri erano stati arrestati!) ed intanto preparare quel
piatto freddo che è suggerito, in' termini di storia, dal più sagace decifratore degli impulsi che «muovono li
huomeni».   

    Uno schiaffo? Forse qualcosa di più. Una sfida aperta. Una beffa: di fronte a tutti ...
La posizione da attaccare poteva sembrare sguarnita, ma in realtà era, di fatto, una di quelle da loro
governate, frequentate, appartenenti al loro prestigio.
   Non avevamo grande disponibilità di uomini e di scelta; dovevamo tener conto, infatti, che molti nostri
partigiani erano in carcere.
   In guerra, così come in politica, è difficile individuare il momento' in cui il gioco si risolve, o si può
risolvere, 'a nostro favore.
.
***

   Procedetti ad un rigoroso esame degli elementi che' giudicavo idonei in rapporto al rischio e all'importanza
dell'azione progettata: mobilitai separatamente un gruppo di compagni di cui conoscevo l'assoluta dedizione
alla Causa.
   Occorreva prima di tutto contemperare lo slancio audace dei più giovani con la calma determinazione dei
più esperti.
   Il Gruppo Comando decise di affidare l'azione al Fronte della gioventù, il movimento fondato da Curiel,
anche per ricordare Francesco Biancotto, massacrato sulle macerie di Cà Giustinian, già compagno di cella a S. Maria Maggiore del nostro Chinello.
   Mentre i compagni pensavano ad orientarsi fra i corridoi, la portineria, i meandri del Teatro Goldoni, sulle
abitudini dei preposti ai servizi, mi misi all'opera con due precisi intenti: armi (ma di quelle buone) ed uomini.
Armi e non catenacci e alcuni uomini di più matura esperienza a rinforzo della compagine.
   Cercai dappertutto, feci più strade che l'ebreo errante: l'incertezza e lo sgomento parevano regnassero
ovunque nella città. Molte porte erano chiuse. Non soltanto noi ma anche gli altri amici della Resistenza si
trovavano in difficoltà. Alcuni poi temevano colpi di testa ed io dovevo andar cauto, poco desideroso del resto di rivelare a chicchessia i nostri progetti.
   Le armi vennero: prima due Berretta e alcune bombe a mano; poi Busulini procurò pistole varie e il
relativo munizionamento; Borella e Bruno Vianello (fratello di Gian Mario) a loro volta reperirono delle
vecchie Mauser ed altro materiale.
    Si ripresero i disarmi, ma con poco successo e i tempi stringevano. Si resero utili in quei giorni Lina
Basaldella e Dina Velluti: ripescarono, sotto i piedestalli delle statue -i modelli in gesso -dell'Accademia
delle Belle Arti, pistole e cartocci di munizioni nascosti da tempo da Dino (Ermes) e da Stefano.
    La mia vecchia burocratica borsa portò in quei giorni un piccolo arsenale. Tutto andava a finire, di mano in
mano, nella bottega del fabbro Giacomo Tenderini, per il collaudo definitivo; qualche volta i ragazzi erano
disgustati dagli arnesi antiquati che provenivano da più parti. Protestavano. con me invocando «almeno un
mitra!».
    Ero preoccupato perché non riuscivo a trovare qualche elemento nuovo, più sperimentato: per i problemi
organizzativi generali, riguardanti la città, avevo come collaboratore Ferruccio Citton. Mi aveva in passato
parlato di suo nipote Giovanni che aveva combattuto in montagna, e che da qualche tempo, superata una
malattia, erà a disposizione.
    Gli chiesi di farmelo conoscere: presi contatto e dopo poche parole -Giovanni Citton (Moro) è uomo
taciturno. -ci mettemmo d'accordo: «Se non hai niente in contrario, faccio venire con me un altro mio
compagno: è in gamba», mi disse, e la sera dopo mi portò Totò.
    Non si creda che dietro questo scherzoso nomignolo si celasse qualche zerbinotto, perché mi trovai di
fronte ad un giovane di vivaci e marcati lineamenti, forte come un Ercole, che dopo avermi ben stretto la
mano e ancor meglio sbirciato in faccia,. mi disse «che gli andavo a genio» e che «qualsiasi cosa succedesse;
sarebbe venuto con noi.
                                           nella foto: in ginocchio da sinistra Gastone, Totò, Gin, Ottone Padoan (Michele), Moro, leo,   
                                            In piedi: Borel, Oc, Cesco, Kim, Marco

   Fu così che Otello Morosini (Totò) entrò nelle nostre file e partecipò con quella sua natura felice e burlesca
alle imprese della «Biancotto»,
    Quando poi ci incontrammo con Gastone Pedrali, anche lui alto, robusto, dotato di un suo ironico
mordente, mi misero in mezzo a loro e dopo che ebbi parlato di quanto si progettava, fra' un sorrisetto e l'altro mi dissero: «In mezo a noialtri, ti xè al sicuro».

***

Vari avvenimenti ostacolarono, ritardarono e modificarono la attuazione del piano. La sera del 5 marzo,
comunque, il lavoro era giunto a buon punto: convocai alcuni responsabili ed affidai ad ognuno un preciso
incarico di ulteriore ricerca e controllo.
   La nostra arrneria era ancora sguarnita: riuscii a procurare tredici pistole Beretta cal. 9, e sei bombe a mano
Breda.
   Il piano definitivo, così come lo illustrai ai miei Garibaldini, in termini di probabilità, si presentava come
segue: un patriota . armato doveva sorvegliare l'accesso alla portineria del teatro, tre di noi armati fra il
pubblico pronti ad intervenire nel caso di reazione da parte dei nazifascisti presenti; gli altri nove con azione
di forza entrando dalla portineria avrebbero rastrellato corridoi e palcoscenico, non dimenticando la buca del
suggeritore e i servizi tecnici, luoghi dei quali avevamo diretta. conoscenza.
   Una volta ripulito l'accesso avrebbero simultaneamente bloccato le due porte che comunicavano colla
platea e sorvegliato la cabina telefonica, Cesco Chinello avrebbe tenuto comizio .
   Si trattava in sostanza di disarmare i poliziotti di servizio e mettere «faccia al muro» e «mani in alto» non
meno di venti persone.
    Avevo provveduto affinché una barca con rematore fosse attraccata sulla riva del Carbon, il più vicino
possibile alla porta del teatro.
    Il prof. Vecchi era come sempre a nostra disposizione. Potei altresì avvalermi della collaborazione di Luigi
Busulini il quale, in caso di incidenti, avrebbe interrotto l’erogazione del'energia elettrica, manovrando
direttamente dalla cabina situata a poca distanza dal teatro, oscurando così tutta la zona.


    Le compagne Maria Teresa Dorigo e Gina De Anna
 avrebbero mantenuto il collegamento con Busulini che
stazionava di fuori. Si doveva agire la sera dell'Il Marzo.


    Successe un incidente: tutto era a posto quando vennero ad avvertirmi che Giacomo Tenderini era rimasto
ferito mentre uno dei ragazzi caricava le armi. La ferita non si rivelò, poi, grave ma le conseguenze
psicologiche potevano essere pericolose.
   Intervenni subito: per primo provvidi affinché Giacomo, accompagnato da Lina, fosse condotto in privato
dal nostro prof. Vecchi. Per secondo riunii i compagni: li rincuorai, assicurandoli sulla salute di Giacomo, ma
cogliendo in alcuni un po' di turbamento non risparmiai le parole severe e quelle atte a stimolare la loro
fierezza.
   Si giunse al momento buono, ma un allarme aereo sopraggiunto ci obbligò a rinviare tutto per la sera
successiva.
   Coadiuvare dai miei collaboratori, riuscii a tenere sotto pressione i Garibaldini per tutta la giornata
garantendomi, con appropriate misure, che fosse mantenuto il necessario segreto. Nessuno all'infuori di noi (e
pochi altri) sapeva nulla. Nessuno.
    Tre elementi essenziali concorrevano a giustificare il mio piano: la perfetta conoscenza del posto,
l'esperimentata decisione dei Garibaldini, l'elemento sorpresa. E, inoltre, la rapidità dell'azione, la verosimile
paura e sbalordimento dei nazifascisti presenti avrebbero compiuto il resto.
   C'era pure un ultimo e non trascurabile elemento psicologico: da più sere la compagnia Zareschi-Crisman
replicava la commedia «Vestire gli ignudi» di Pirandello: avendo visto sempre il pubblico rimanere sorpreso
di fronte ai mutamenti di scena creati dalla fantasia del nostro commediografo ne ho tratto le conseguenze del
caso.
   Come clandestini, partivano, devo ammetterlo, da una posizione di vantaggio. Quei signori potevano
ritenere di averci presso che sgominati, ed era abbastanza vero, ma difficilmente avrebbero potuto ipotizzare
che ci saremmo risollevati dagli scacchi subiti con una azione di quella sorta al limite dell'irrisione,
configurata, inserita, in un meccanismo teatrale, sulla presenza in scena di personaggi -attori che attori non
erano -in una insolita finzione-che avrebbe anche potuto essere suggerita, forse, da l'altro io -Pirandello.
    L'aspetto politico mi era chiaro: avremmo, se tutto andava bene, resi sgomenti quegli uomini, intaccato il
prestigio dei loro capi, scossa la fiducia dei creduli nella vittoria di Hitler, ma soprattutto avremmo fatto presa
nell'animo del popolo veneziano che nella sua emotività avrebbe ingigantito l'avvenimento.
    Giungemmo al momento cruciale. Le disposizioni che avevo dato erano che bisognava evitare che
I'impresa, attraverso atti irresponsabili dei nazifascisti, potesse degenerare con conseguenze che ci sarebbero
state ritorte dalla propaganda nemica.


Appena entrati in azione vennero messi in condizione di non nuocerei poliziotti e il personale di servizio; a
loro volta gli attori e gli inservienti non si fecero ripetere due volte l'invito.


    Alle ore 21.16 Arcalli, Padoan, Chinello, mascherati e armi in pugno, entrarono sulla ribalta e tennero
comizio. «Nessuno si muova! Se in teatro c'è spia e traditore fascista venga fuori che riceverà piombo
partigiano» fu gridato dall'interno dalla voce di Citton. Chi nello si mise al centro della ribalta (erano state
intanto accese le luci) e rivolse al pubblico la parola di incitamento: «Veneziani, l'ultimo quarto d'ora per
Hitler e i traditori fascisti sta per scoccare.
    Lottate con noi per la causa della Liberazione nazionale e per lo schiacciamento definitivo del
nazifascismo.-la Liberazione è vicina! stringetevi intorno al Comitato di Liberazione Nazionale e alle
bandiere degli eroici partigiani che combattono per la libertà d'Italia dal giogo nazifascista.
    Noi lottiamo per poter garantire, attraverso la democrazia progressiva e l'unità di tutti i partiti antifascisti,
l'avvenire e la ricostruzione della nostra Patria. A morte il fascismo! Libertà ai popoli! Viva il Fronte della
Gioventù! », Poi Chinello, fatto si sorridente, concluse il suo discorso con un allegro: «Signore e signori,
buonasera e arrivederci».
    Nello stesso tempo Arcalli e Padoan, ai due lati, sempre tenendo sotto il tiro delle armi i fascisti presenti
(c'erano quattro della X" MAS in seconda fila delle poltroncine), lanciarono numerosi manifestini.
    Prima di uscire Citton salito lui pure sulla ribalta, secondo le istruzioni, gridò: «Nessuno si muova! Il teatro
rimane circondato per mezz'ora! ».
    Non era vero. Fuori non c'era nessuno, salvo i nostri collaboratori.
    I nazifascisti presenti, ufficiali e soldati della G.N.R., delle Brigate Nere, della Wehrmacht, sbigottiti e
impauriti (qualcuno, ricordo, si nascose dietro le spalliere delle poltrone) non reagirono.
   Non pochi spettatori raccolsero i manifestini, li lessero e se li passarono fra loro.
   L'azione partigiana stava per concludersi felicemente: avevamo occhi dappertutto. Ma grande ormai era la
gioia che riempiva il nostro cuore.
   Il risultato ottenuto era comprova dell'efficienza organizzativa, politico-militare, della nostra formazione.
   Vorrei qui ricapitolare la fisionomia e le componenti sociali di questo gruppo di uomini e donne: uno di
loro era stato emigrante in Germania a 12 anni e aveva lavorato nelle fornaci; un altro quand'era studente
all'Università di Bologna, bastonato dagli squadristi, era giunto all'ospedale in coma; ci fu chi aveva
accumulato sulle spalle dieci anni di servizio militare e silurata la nave sulla quale era imbarcato era stato
tratto in salvo, per miracolo, molte ore dopo in mare aperto; e poi coloro che provenivano dall'insegnamento,
dalle fabbriche e dalle officine, -l'operaio, l'impiegato, il fabbro, il meccanico, il tipografo e ... in presa
diretta, con un qualche sapore risorgimentale, gli immancabili studenti: Kim, Cesco, Michele, Borel.
    A distanza di tanti anni provo viva commozione nel ricordare i compagni che in questa vicenda, passata
alla cronaca e alla storia della Resistenza come la «Beffa del Teatro Goldoni», mi furono così
straordinariamente vicini, decisivi e fedeli.


  Ecco i loro nomi: Franco Arcalli (Kim), Ivone Chinello (Cesco), Ottone Padoan (Michele), Giovanni
Citton (Moro), Mario Borella (Livio), Renato De Faveri (Oc), Giovanni Dinello (Borel), Giovanni
Guadagnin (Gin). Otello Morosinì (Totò), Mario Osetta (Leo), Delfino Pedrali (Gastone), Maria Teresa Dorigo (Alice), Gina De Anna, Luigi Busulini (Gigio), Carlo Fevola (Cadetto), Giacomo Tenderini (Massimo,) prof. Giuseppe Vecchi (Vianello).


    Pochi minuti dopo i compagni erano fuori dei teatro: tutto era andato bene e le armi messe al sicuro. Fu
dato l'ordine di separarsi.
    lo, Alice, Gina e Livio rimanemmo in teatro e ci divertì molto assistere all'arrivo di contingenti della
G.N.R., delle Brigate Nere e della X° MAS, armatissimi, i quali, non potendo far altro, si adoperarono a
raccogliere i manifestini. Li vedemmo pure rivolgersi agli spettatori, scusandosi, chiedere se per piacere li
davano a loro.
    L'indomani fu tutto nostro: una giornata piena di sole, l'avvenimento di dominio pubblico e il popolo
veneziano sceso nelle strade, sorrideva, ironizzava, sembrava rialzare il capo, faceva sua la beffa partigiana.
    Le forze della Resistenza ne furono rianimate, così come le speranze dei nostri compagni in carcere,
mentre cadde l'albagia e la prepotenza dei nazifascisti che fino ad allora avevano spadroneggiato nella città.
   Qualche giorno dopo le radio di Lugano, Londra e Mosca si impossessarono della notizia e ne fecero
oggetto di commento.

Venezia, Aprile 1975

                                                                                                     GIUSEPPE TURCATO (MARCO)

Nota -Mi giunse notizia, attraverso i canali segreti del C.L.N., che il fatto era stato commentato nella sede
della Platzkommandantur e che il col. Reichel (il quale da tempo aveva contatti con. emissari del Comando
Piazza C.V.L.) parlando coi suoi ufficiali ebbe a dire «Toll!.·. ; unbesonnen diese Italìenerl» . «Fantastico!, ..
però, questi Italiani .. .,», Di lì a qualche giorno il col. Reichel fece sapere che avrebbe desiderato
conoscere chi aveva' ideato e realizzato l'impresa," offrendo ogni, garanzia di incolumità. La proposta mi
tentò perché avrebbe. potuto dare risultati positivi, senonché padre 'Giulio, dal suo «osservatorio» del
Patriarcato, a sua volta avvertì che la proposta del colonnello Reichel era fatta: 'sì in buona fede, ma che
questi non si rendeva conto di quanto si fosse stretta, intorno a lui; in quel periodo, la sorveglianza delle S.S.
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